Ancora sui padri, italiani e non

Come spesso accade, chi commenta su questo blog ne sa più di chi scrive. E io leggo, annoto, imparo e ogni volta ringrazio per la ricchezza della Rete, il duepuntozero, la partecipazione e bla bla. Questa volta Clara, un’amica che alla causa della maternità ha donato ben tre pargoli in cinque anni, tirandoli su praticamente da sola (marito manager superimpegnato, eccetera) solleva un’obiezione sulla mia (nostra?) esterofilia. All’insegna dell'”all’estero è sempre meglio” io per prima mi riempio la bocca di dati e cifre per dimostrare l’ignavia dei padri italiani rispetto a quelli stranieri.
Non è proprio così, dice Clara, che sull’argomento si è documentata e molto bene. Anche all’estero la cooperazione familiare latita, e il peso della maternità è ancora sulle spalle di una one woman band.
Da una parte sono sollevata (non sono solo i nostri a darsi alla macchia di fronte a un neonato), dall’altra se è così ovunque o quasi mi chiedo quando e se potremo aspirare a una vera parità.
Comunque, questo il commento di Clara. Il punto, secondo lei, è fare della differenza tra uomini e donne e del potere che scaturisce dalla maternità la vera forza.

“Non penso affatto che i padri che non approfittino dei congedi paternità siano solo italiani. Mi sono molto documentata sull’argomento e il libro che mi ha colpita di più è stato quello un’autrice americana, oggi freelance, ma prima della maternità invece reporter per il NY Times e candidata al Pulitzer, Ann Crittenden: The Price of Motherhood. Why the most important job in the world is still the least valued (dove per “prezzo” si intende proprio quello economico, ovvero dei contributi che non si mettono da parte, della pensione che non cresce, ecc. ecc da quando si è in congedo maternità). Ebbene la Crittenden, dati alla mano, dimostra come la riluttanza da parte degli uomini circa i congedi paternità sia un fenomeno trasversale che tocca tutto il pianeta. Anzi, aggiunge, se è dagli anni 1970 che le femministe insistono su questo punto e tuttora non si ottengono risultati rilevanti, ciò significa che bisogna cambiare strategia o cambiare obiettivi. Anch’io penso che se dopo 40 anni le cose ancora non cambiano bisogna cambiare o gli obiettivi o i parametri della ricerca.
Penso anche che, dopo tutte le giustissime conquiste ottenute dal femminismo degli anni ‘70, che si era impuntato sull’uguaglianza tra uomini e donne, ora si tratti di riconoscere che era importante ottenere la parità dei diritti, ma altrettanto riconoscere invece la diversità degli uni e degli altri, diversità che è complementare e che insieme diventa una forza gigantesca (corrente di pensiero di femminismo più recente, per esempio Nadia Fusini).
Questo non piace a tutto il femminismo. la parte più radicale infatti, contesta: “Come, allora essere una mamma a tempo pieno è bello? e noi che siamo fatte in quattro per dimostrare che non eravamo come gli uomini e che potevamo tornare subito a lavorare come loro e che anzi, loro potevano starsene a casa coi pupi?”. Questo tipo di femminismo suppone che il modello “giusto” da seguire sia quello maschile, ovvero che una donna è una ganza se è come un uomo e sa fare le cose come le sa fare un uomo. Le cose da “donna” sono un po’ di serie B, sono le parole fasciste del tipo “l’angelo del focolare”…
Mi rendo conto che recuperare la maternità come cosa fichissima e che solo noi donne possiamo fare, oltre che lavorare, significhi camminare per un sentiero insidioso. D’altra parte, sono arrivata serenamente e fermamente alla conclusione che una donna deve avere obiettivi e modelli femminili, tutti ancora da scoprire e da trovare e che non voglio “abbassarmi” a dire che io devo essere come un altro diverso da me (ci tengo a sottolineare che non voglio alcuna polemica con gli uomini, che adoro!, quanto a sottolineare davvero una differenza importante da mettere a fuoco).
In conclusione: se noi per prime non siamo convinte che la maternità sia una figata allo stato puro, come possiamo pretendere che gli uomini ci saltino sopra gongolanti? Inoltre, il vero punto, a mio avviso, non è tanto quanto gli uomini aiutino (alla peggio subentrano colf, nonni, asili nido..) quanto di come noi donne lavoratrici, una volta diventate mamme, riusciamo a gestirci tutte e due le cose, ovvero famiglia e lavoro, visto che su di noi comunque incombe di più (noi abbiamo avuto il pancione, gli ormoni, noi abbiamo le tette per allattare e un cervello stupendo per andare a lavorare)”.

2 thoughts on “Ancora sui padri, italiani e non

  1. Veh, fate attenzione a non sparare troppa merda sugli uomini perchè poi vi torna tutto indietro con gli interessi.
    C’è anche chi si sta sta rompendo i sacri attributi di sentirsi dire continuamente che gli uomini non sono uomini, non fanno questo non fanno quello.
    A me personalmente dei figli me ne frega niente, per cui l’argomento mi sfiora appena, per gli altri che decidono di martirizzarsi e fare i papà vedete di non rompere troppo gli zebedei.

    Dopo averci mandato a fare il soldato, averci insegnato a non piangere a non mostrare emozioni, perchè non è da uomini, a farci strada nella vita da soli, a fare a pugni tra di noi per vedere chi è il più forte.
    Dopo che ci dobbiamo litigare e fare a cazzotti per poter avere una donna, dopo che siamo andati a lavorare in fonderia (possibilmente senza crepare), dopo che lavoriamo in miniera, a costruire ponti strade e case, dopo che difendiamo i cittadini facendo i poliziotti, i carabinieri, le guardie.
    Dopo un’intera vita passata a dover mostrare i muscoli, a fare la faccia dura, a sopportare e tacere, cosa volete che facciamo anche le mamme. O i mammi, come piace dire a voi ?
    Volete anche che smerdiamo i bambini.
    Vediamo di non lamentarci del brodo grasso eh, che cambiare un pannolino non ha mai ucciso nessuno.

    Con affetto, saluto ossequiosamente.

  2. Dav_ide: visto il tono del tuo commento, improntato al dialogo e alla comprensione fra i sessi, potevi risparmiarti i saluti e ossequi, grazie.

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