Voglia di lavorar, saltami addosso

Sono arrivata a Milano a gennaio del 1999. Neolaureata, emigrata col cuore sanguinante da una piccola città bastardo posto (però c’era il mare) e piena di entusiasmo. Ho iniziato lavorando come una pazza. Non c’erano orari, weekend, serate, solo lavoro. I miei amici erano i colleghi, la mia identità era la mia qualifica professionale. La gniù economi fioriva rigogliosa, c’erano feste tutte le sere, giravano i soldi o così almeno sembrava, e tutti intorno a me erano rampanti carrieristi innamorati del proprio lavoro, e soprattutto convinti di partecipare a una rivoluzione culturale e mediatica di proporzioni bibliche.
Sei anni, svariate società e un paio d’anni a Londra dopo, sono di nuovo a Milano.
E nessuno ha più voglia di fare un tubo.
Non c’è un amico, un ex o attuale collega che non mi abbia detto una delle seguenti: “Non ce la faccio più” / “Cambi azienda, ma è sempre la stessa merda” / “Accetterei metà stipendio per avere meno responsabilità e più tempo libero” / “I weekend sono sacri” / “Io alle 18:30 massimo voglio essere fuori” / “Vorrei lavorare nel no profit” /”Appena metto da parte due lire mollo ‘sto lavoro e ‘sta città e me ne vado in campagna” /”Apriamo un ristorante al mare?”
Il massimo: un amico neo papà che, di fronte alle esternazioni della moglie casalinga per forza, che scalpita per tornare a lavorare non appena il bimbo è al nido, risponde (serio) “Bene, così posso smettere io”.
Mi chiedo, cos’è successo? Disillusione per le troppe aspettative mancate (probabile, per chi “fa Internet”). Sindrome da burn-out? (probabile, idem c.s.) L’età che avanza? No, perché non hanno voglia di lavorare nemmeno i più giovani, quelli che oggi hanno l’età di quando io sono arrivata a Milano, assertiva come uno zerbino (stile, se il lavoro chiama, rispondi sempre sì). Oggi invece i nuovi me durante il colloquio ti guardano smarriti e chiedono: “ma devo venire tutti i giorni?”
Siamo tutti a inseguire sogni di libertà, di tempo libero, di fuga dalla città-mostro, tutti con in borsa Buongiorno pigrizia, libro cult di questa generazione di fancazzisti acquisiti, dall’illuminante sottotitolo “Come sopravvivere in azienda lavorando il meno possibile”. Tutti a barcamenarsi tra collaborazioni e consulenze, prendendo due lire, tagliando il superfluo, basta non lavorare “tutta la settimana”.
Meglio così? Sicuramente, siamo meno “da bere”. Ma forse più simpatici.
Io, comunque, appena posso mollo tutto e torno al mare.

3 thoughts on “Voglia di lavorar, saltami addosso

  1. Mi ha fatto molto piacere, ovviamente.

    Noi liguri abbiamo bisogno di dividerci tra di noi in modo inversamente proporzionale alla distanza che ci separa.

    E tanto più amiamo la nostra terra quanto più ne siamo lontani.

    (in genere mi esprimo diversamente, non ti preoccupare)

    Interessante e divertente questo blog.

  2. Certo che se pagassero robe interessanti, o almeno umane, forse si sarebbe un po’ più stimolati. Se invece sembrano non esserci prospettive, prevale la voglia di fuggire. O no?

  3. Ciao,

    argomento interessantissimo, anche perché rientro in pieno in questi fancazzisti di ritorno :-)

    Io non ho mai avuto il coraggio di fare il grande salto in un’altra città: quando avrei voluto non ho avuto occasioni, ora a 34 anni non ne ho più voglia.

    Anch’io mi sono buttata nel lavoro, anche per me non c’erano orari e domeniche (e ancora adesso non si sono, mio malgrado). Però…

    Mi ritengo fortunata perché faccio un lavoro interessante, ma sempre meno interessante che vivere la propria vita, gli amici, la famiglia o semplicemente se stessi.

    A pensarci bene qualche anno fa, prima della “flessibilità” e di tutte le storie annesse, le persone conducevano una vita un po’ più regolare, per alcuni monotona, per altri perfetta. C’erano i week end liberi, il mese di ferie, la settimana bianca e lo stop natalizio… tutte cose che a un certo punto sono sembrate far parte di un retaggio antiquato, di qualcosa da buttare. O forse no.

    Forse, con nomi e modi diversi, sta solo tornando a galla un bisogno di vivere, di divertirsi, a volte di oziare, magari di crescere e confrontarsi che i “ciao carissimo -segue pacca sulla spalla – sorriso di plastica” non possono sostituire.

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