Ieri sera ho noleggiato un gioiellino di film che, come spesso mi capita, mi ero persa quando è uscito: El abrazo partido, di Daniel Burman (orso d’argento a Berlino nel 2004 e premio per il protagonista, Daniel Hendler aka Ariel).
E’ una storia un po’ surreale, straniata e lunare, a tratti molti divertente, ambientata in una Buenos Aires anonima e grigia, animata dal microcosmo multietnico dei negozianti di una galleria commerciale.
Mi ha ricordato i racconti ebrei interpretati da Moni Ovadia: il mito della Polonia natale, che torna nel desiderio di Ariel di “diventare polacco” per essere, in realtà , europeo, la nonna fuori di testa che canta le arie della giovinezza a Varsavia, il padre che ha abbandonato la famiglia e l’Argentina per vivere in un kibbutz (“E cosa fa lì, mamma? Munge, semina..?” chiede Ariel) il fratello stereotipo del perfetto commerciante ebreo, la madre viscerale e dolente…
E’ una riflessione sul valore della paternità ma soprattutto dell’amore, inteso come coppia, matrimonio, famiglia. Sul tradimento e sulla paura di passare tutta la vita con la stessa persona.
C’è una frase di Ariel, il protagonista, che si pente per aver lasciato la fidanzata storica, quella con cui “ho passato 10 anni, cioè metà della mia vita” e dice più o meno:
“L’ho lasciata perché stavo con lei da sempre. Continuare così significava un lungo tunnel di abitudine che sarebbe finito con la morte. Solo ora ho capito che morirò lo stesso, e senza neanche lei vicino che mi accarezza i capelli”.
Frasi celebri a parte, se come me l’avete perso, noleggiatelo: merita davvero.