Il downshifting: lavorare meno o lavorare meglio?

Dunque, il downshifting, letteralmente scalare una marcia, significa lavorare meno, guadagnare meno, quindi consumare meno e possibilmente vivere meglio. Perché si ha più tempo libero (ma anche meno soldi, attenzione) e lo si può dedicare alla famiglia, agli hobby, alla palestra, al modellismo, a quel che volete voi.
Paradossalmente, è un modello che sta avendo successo in tempi di crisi. Quindi, da una parte ci sono quelli che il lavoro lo vorrebbero (o lo vorrebbero più sicuro, o ne vorrebbero di più), dall’altra quelli che ne hanno troppo e sognano di mollare.
Storia piuttosto vecchia. Ogni conversazione da bar o cena con argomento il lavoro finisce da sempre con qualcuno che butta lì il solito “Ma io mollo tutto e mi apro un chiringuito a Formentera” (sostituire il chiringuito con altro sogno a piacere, per ispirazione vedi anche qui).
Però oggi questa vecchia storia sembra diversa; sembra possibile. Vedi l’incredibile successo di Adesso basta, di Simone Perotti che, mi ha raccontato, riceve centinaia di mail da parte di persone che chiedono consigli e vogliono imitarlo (lui, manager “di successo”, ha mollato tutto e adesso scrive e fa lo skipper in Liguria). Pochi giorni fa è stato presentato un libro simile, almeno nel titolo: Quasi quasi mi licenzio. Non è mai troppo tardi per cambiare vita.
Sembra possibile anche grazie al web, che offre (o offrirà, spero) lavori più flessibili e non necessariamente legati alla presenza in ufficio. Possibile grazie alla tendenza dello slow living che, dal cibo al lavoro appunto, rifiuta stress, frenesia, ansie da competizione e ci invita a vivere con lentezza. Sì, lo so che non è facile. Sì, anche io vivo a Milano. E c’è un lato negativo da considerare: il downshifting spesso lo fanno le donne dopo aver avuto un figlio, ma non è una scelta, è una strada obbligata, e spesso non significa lavorare meno.
Io l’ho fatto un paio di anni fa, quando ancora non si chiamava donwshifting ma solo “maseipazzaalasciareunlavorofisso?”. Non l’ho fatto per moda ma perché ho un evidente problema con il lavoro dipendente: non riesco a riconoscermi in un’azienda, a consacrare all’azienda  tutto il mio tempo, a inserirmi stabilmente in un’organizzazione, a rispettare le gerarchie, a comprendere una cultura del lavoro che, in Italia, significa “sto in ufficio 10 ore a scaldare la sedia, così il capo mi promuove”, e infine mi annoio. Voglio lavorare quando dico io (magari alle due del mattino) e non quando dicono loro.
Il bilancio? Dal punto di vista della lentezza, negativo: lavoro di più per guadagnare di meno. Ma, attenzione: faccio quasi esclusivamente cose che mi piacciono, ho eliminato i tempi morti delle riunioni, sport aziendale per eccellenza, e i tempi li decido io. Ossia, a volte lavoro il weekend o di sera, ma se voglio uscire il mercoledì mattina, lo faccio senza chiedere permesso a nessuno, che a 37 anni mi pareva un po’ eccessivo. Almeno per me, questo è il vero downshifting, o forse la sua versione più facilmente realizzabile. Siccome dobbiamo lavorare per vivere, e da lì non si scappa, almeno facciamolo come vogliamo. Sul lavorare meno, ci sto, appunto, lavorando. E anche sul consumare meno, certo.

64 thoughts on “Il downshifting: lavorare meno o lavorare meglio?

  1. Comunque il buon Perotti, che abbiamo qualche settimana fa in una libreria della città dove dove abito, ha attirato crtiche feroci, secondo me immeritate.

    Mi viene allora il dubbio che contro il downshifting militino le riserve mentali di chi ne trarrebbe beneficio. E sono più o meno le stesse che vedo quando parlo di reddito di cittadinanza.

    Alla fine lavorare sarà anche innaturale, ma la cultura lavorista è dura a morire.

  2. ho solo 31 anni, ma oramai è da un anno che sto cercando di abituare l’azienda con cui collabora a dei brevi periodi di telelavoro, sperando tra un pò di trasformare la cosa in abitudine.

  3. Downshifting, tecnicamente, è passare da lavoro full time a part time. Quando si lavora in proprio è normale finire per lavorare più ore dell’orologio e spesso per meno soldi di quelli che si avrebbero cno 8 ore d’ufficio.
    Ciò non toglie che concordo con Blimunda, spesso è proprio una questione caratteriale. Per me il lavoro non nobilita l’uomo, anzi. Lo rende schiavo. Del lavoro stesso e dei soldi che guadagna.
    Sarà che ho la gran fortuna di non dover pagare affitto e di vivere in un paesino di montagna in cui le occasioni per spendere scarseggiano, coltivo l’orto da maggio a ottobre però sono molto contenta di lavorare poco (e guadagnare poco) perché ho tutto quello che mi serve e in più il tempo per stare con mia figlia, prepararle torte e biscotti per la merenda, farmi dado da brodo e detersivi in casa…tutti modi per risparmiare soldi facendo qualcosa che mi riempie di soddisfazione.
    Questione di carattere, appunto.

  4. Corrado, assolutamente d’accordo. Ci hanno inculcato nella testa quella cultura tanto che molti di noi – anche giovani, non parlo di mio nonno, cinquant’anni da operaio – si sentono spersi senza lavoro. Altro problema infatti è l’identificazione totale di sé stessi nel proprio lavoro.

  5. Claudia, esatto. Io, che rimango comunque una consumista e questa è la pecca che mi trattiene dal lavorare di meno, quando lavoravo in azienda e gudagnavo di più, sprecavo tonnellate di soldi in oggetti inutili che servivano solo a gratificarmi per quelle giornate totalmente buttate – nel frullatore tra riunioni e impegni dalle 8 del mattino alle 8 di sera, con coda dopo cena al computer. Adesso, pur restando amante dello shopping, compro davvero la metà. E’ un inizio.

  6. grazie della citazione. e complimenti per il blog, molto seguito. un saluto a tutti i downshifters. ciao! simone perotti

  7. casca a pennello questo post perchè anche io sono in fase di downshifting al femminile: lavoro quando voglio e di certo non diventerò ricca (e nemmeno avrò mai la possibilità di mettere da parte dei soldi, come ha fatto Simone, per potermi permettere di non lavorare più). Ma faccio il lavoro che mi piace, con i miei tempi e non sono costretta ad orari di ufficio: questo è ciò che molte madri si ritrovano a fare magari costrette e controvoglia, ma che nella filosofia del “vivere con lentezza” poi acquista un po’ di sapore con il tempo. Ciao!

  8. Ti invidio molto, perchè hai fatto quello che sogno da tempo ma che ancora non ho trovato il coraggio di fare.
    Anche io ho qualche problema con il rispetto delle gerarchie, degli orari e provo un’avversione profonda per le riunioni. Inoltre mi rende particolarmente nervosa dover rendere conto a qualcuno di ciò che faccio.
    Insomma, se lavorare è innaturale ancora di più è farlo per qualcun altro! Ma non è facile decidere di lasciare un posto fisso con uno stipendio dignitoso quando intorno a te tanta gente non trova lavoro o lo perde per colpa della crisi e, soprattutto, non so proprio che mestiere inventarmi per poter lavorare da casa!

  9. Ciao,
    io sono un neo studente universitario/lavoratore part-time e dopo neanche 2 settimane con questo ritmo mi sento già abbastanza sovraccarico…ma credo non sia il periodo giusto per pensare a un downshifting.
    Scrivo perché avevo già sentito parlare di questo tema su un testo delle superiori e, pensando sia un tema abbastanza interessante e dovendo preparare una mini ricerca di circa 2-3 facciate per un prof di economia, ho pensato sarebbe bello fare questa ricerca su questo tema, quello che voglio chiedervi è, se ne avete, altro materiale da cui prendere spunto in modo da rendere l’elaborato migliore. Grazie comunque per l’ottimo materiale già fornitomi :)

  10. Proprio sabato ho parlato del mio insegnante di chitarra (mi devo diplomare in elettrica) e mi ha detto: “Guarda, lavorando 8 ore al giorno diventerai da qui a un anno un professionista”. Peccato che 8 ore al giorno io le spreco a fare un lavoro in cui non mi identifico, e quindi non ho tempo e sarà più di 1 anno. Ma se non lavoro non ho i soldi per pagarmi gli studi di elettrica. Quindi è un pò un cane che si morde la coda. Adesso grazie a quest’articolo vedo un pò cosa si può fare.
    Qualche consiglio per affrontare questa cosa con intelligenza? Perchè non basta solo rischiare e volere, ma anche avere un metodo… grazie…

  11. Speriamo che questo articolo mi aiuti ad uscire dalla mia situazione. Ho 20 anni e ho già provato ad adattarmi al sistema “lavoro” con scarsi risultati. Non riesco a star dietro ai ritmi frenetici del mondo lavorativo, e come se non bastasse i miei genitori mi stanno addosso perchè pretendono che trovi un lavoro stabile. Non nascondo che sono immerso nella depressione più totale e spesso penso al suicidio perchè non riesco più a vivere con questo stress e ques’ansia addosso. Spero attraverso questo articolo di trovare una soluzione. Lavorare per sopravvivere si, ma vivere per lavorare no. Sono stanco, dico sul serio. Mi sto spegnendo lentamente. Spero di poter trovare una luce in fondo al tunnel prima che la faccia finita.

  12. Ciao Inbilico. Io ho 29 anni, lavoro da 2 in una realtà stabile e sto progettando un cambiamento radicale (ovviamente per dedicarmi con metodo e passione a qualcosa che amo, nel mio caso la musica). Anche io condivido i tuoi stati d’animo, ma allo stesso tempo non penso che tu debba essere troppo severo nei confronti dei tuoi genitori. Loro sono cresciuti in un contesto dove il lavoro era considerato un valore, veramente qualcosa che nobilitava (lavoravano 8 ore, non 12, e si sono realizzati, non che sopravvivevano e basta). Oggi purtroppo non c’è il lavoro considerato valore, non sei tu che stai fornendo un servizio all’azienda, ma loro che ti stanno facendo un favore. Hai 20 anni, sei giovane (non è mai troppo tardi, ma 20 anni è meglio che 40), esci dalla zona di comfort e buttati. Spiega ai tuoi genitori che non seguire un percorso già tracciato da altri e prestabilito implica comunque molto studio e determinazione.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*
*
Website